Basta inglesismi inutili !

Appello per salvare la lingua italiana, prima che venga soppiantata dall’ita-nglese

“Chi parla male, pensa male e vive male.
Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!”
(Nanni Moretti, Palombella rossa)

“Tu vuò fa l’ americano
mmericano! mmericano!
ma si nato in Italy!…”
(Renato Carosone)

Da tempo i linguisti più accorti e le persone di semplice buon senso lanciano l’allarme sui pericoli che corre la lingua italiana, a causa dell’abuso incontrollato di termini inglesi (cd. “anglicismi”) o pseudo-inglesi, spesso storpiati nella pronuncia. Si utilizzano, naturalmente, anche parole appartenenti ad altre lingue, soprattutto francesi (in passato), ma non vi è paragone possibile, a livello quantitativo, con l’inglese. L’invasione, dagli anni Novanta in poi, è ormai esponenziale: si calcola che gli anglicismi penetrati nell’italiano sono circa 6000, e che costituiscono almeno il 20% di tutti i neologismi. Usati inizialmente nei linguaggi settoriali e per iscritto, si diffondono poi gradualmente nel parlato comune grazie ai mezzi di comunicazione di massa.
Make-up, location, tour operator, gap, competitor, trendy, take-away, devolution, provider…: si tratta per la maggior parte di cd. “prestiti di lusso”, termini di cui esiste già un perfetto equivalente in italiano, o si potrebbe facilmente trovare, ma che vengono impiegati per snobismo, pigrizia o ignoranza, nella convinzione che la lingua inglese sia di per sé più autorevole o espressiva.
Pare impossibile fare a meno di parole come bar, sport, rock, jeans, standard ecc., che ormai da lungo tempo sono entrate nel linguaggio e di cui è arduo trovare dei sostituiti. Invece la maggior parte degli anglicismi di uso comune si caratterizza per la sua totale inutilità (e per questo motivo sono spesso effimeri, come le mode). E’ incredibile che nella patria del vino esistano dei wine bar, che nella terra di Giotto non si provi a tradurre la parola design, o che si usi un termine come bypassare quando abbiamo gli equivalenti oltrepassare, scavalcare, superare ecc. Altri anglicismi, poi, sono dotati di un significato eufemistico e un po’ comico, che maschera ciò che sta dietro: tutor, hospice, job on call, escort, peacekeeping
Accade così che una lingua con oltre 700 anni di nobile tradizione nella letteratura, da Dante ad oggi, e che Leopardi giudicava onnipotente per la sua varietà e capacità espressiva, sia vittima di anglicismi superflui, e spesso brutti, impoverendosi e imbarbarendosi.  Ci si giustifica dicendo che l’inglese è più comodo perché i vocaboli sono più corti; ma se la brevità fosse una ragione sufficiente per adottare un idioma, dovremmo tutti quanti parlare cinese, in cui la maggior parte della parole sono monosillabiche!

Eppure l’anglomania genera una serie di incertezze e problemi, a cominciare dalla difficoltà di interpretare espressioni non conosciute da tutti. Per non parlare dell’imperversare delle sigle di origine anglosassone, spesso incomprensibili (chi saprebbe sciogliere correttamente adsl, tdci, dvr-rw, abs…?).
La lingua inglese ha uno svantaggio rispetto a quella italiana: non vi è corrispondenza tra grafia e pronuncia, per cui uno stesso suono può essere reso in modi molto diversi. Ciò provoca nei parlanti italiani frequenti errori di grafia (quanti sanno scrivere correttamente think-tank, outsourcing, station-wagon …?) e di pronuncia: es. tunnel (in inglese si pronuncia con la “a”), performance (l’accento cade sulla prima sillaba), water (il gabinetto, che si pronuncia come “acqua”), talk show (in inglese la “l” è muta), bipartisan (che andrebbe pronunciato “baipartisan”), home page (la “h” va aspirata)…
C’è poi la questione del genere dei vocaboli: in italiano si suddividono equamente tra maschili e femminili, mentre i prestiti anglosassoni, a parte casi dubbi (si dice lo slide o la slide, il car sharing o la car sharing?), vengono interpretati quasi tutti come maschili. E la questione del plurale: eccetto ipotesi in cui addirittura si usa un plurale in “s” (es. fans o partners), gli anglicismi restano invariabili nel numero, costituendo eccezioni alle regole grammaticali.  
E’ la fonetica stessa della lingua che si sta modificando: una delle caratteristiche peculiari dell’italiano-fiorentino è la terminazione delle parole in vocale; in italiano inoltre certi suoni dell’inglese non esistono (ad es. la vocale di bird o la consonate centrale di vision). Sta mutando anche l’ordine tradizionale dei composti, che in italiano sarebbe determinato + determinante (assistenza clienti, allenatore personale, orgoglio omosessuale…), mentre sotto l’influenza anglofona spesso viene invertito (customer care, personal trainer, gay pride …).
Più in generale (un po’come avviene con i calciatori stranieri), l’importazione di così tanti vocaboli inglesi atrofizza e impedisce il rinnovarsi dell’idioma dall’interno, tramite neologismi. Non è necessario essere dei linguisti “neopuristi” (come Arrigo Castellani, che nel 1987 scriveva il famoso saggio “Morbus anglicus”) per vedere chiaramente il rischio: che, nel medio periodo, il lessico, la grammatica e la sintassi della nostra lingua vengano compromesse. Il rischio è che l’italiano, cioè, si dialettizzi, diventando una sorta di creolo (un po’ come il dialetto parlato in Giamaica, ex-colonia inglese), un “ita-nglese” misto dei due linguaggi. Se un eccesso di conservatorismo può ingessare una lingua, l’attuale liberismo sfrenato la sta snaturando.
Tra i linguisti c’è chi minimizza, sostenendo che gli anglicismi costituiscono solo una minima percentuale delle parole di un dizionario, e che la struttura della lingua è salva. Qui però non stiamo parlando dell’italiano letterario, ma di quello usato comunemente dai più, e basta sfogliare una rivista o navigare in rete per rendersi conto che l’ita-nglese è già una realtà. C’è addirittura chi nega il problema alla radice, sostenendo che non esistono lingue pure, e ciascuna evolve influenzata dalle altre. Nel nostro caso però l’influenza è a senso unico (inglese – italiano), segno evidente non di apertura, ma di una sorta di complesso di inferiorità e di assoggettamento culturale. Gli italiani attualmente sembrano infatti oscillare tra ottusa xenofobia nei confronti di certe culture, e acritica esterofilia nei confronti della civiltà (americana) dominante, senza mai trovare un giusto mezzo.

L’anglicizzazione non è un destino inevitabile, ma è il risultato delle scelte che vengono compiute, od omesse. Finora, i governi che si sono succeduti hanno reagito al fenomeno con la più totale inerzia e arrendevolezza. D’altra parte ciò riflette l’atteggiamento della quasi totalità degli intellettuali e dell’opinione pubblica, che nemmeno percepiscono il problema.
Ben diversa è la situazione in Francia o in Spagna, dove si parlano lingue neolatine come la nostra, e dove identica è la pressione dell’inglese. In Francia (dove dicono ordinateur al posto di computer e courriel al posto di e-mail) la tutela della lingua è affidata a organismi governativi, che ne sorvegliano il buon uso nel settore pubblico e privato; in Spagna esiste l’Accademia della lingua, che periodicamente redige il vocabolario ufficiale. Il fatto importante è che sono i cittadini stessi a chiedere che la propria lingua sia preservata: di conseguenza, l’abuso dei anglicismi è molto più limitato.
Che l’intervento pubblico possa essere utile ed efficace anche in Italia è dimostrato da quanto accaduto durante il fascismo. Sebbene la politica contro i forestierismi fosse portata avanti con spirito autoritario e nazionalista, certo non condivisibile, sta di fatto che ottenne un certo successo. Se alcuni neologismi proposti ebbero vita breve, altri si sono imposti senza problema: calcio (e molti termini di questo sport) per football, pompelmo per grape-fruit, tramezzino per sandwitch, autista per chauffeur, pallanuoto per waterpolo
Oltre alle leggi, conta soprattutto la consapevolezza dei parlanti della necessità di tutelare la lingua come parte della propria tradizione. Se esiste questa volontà, nessuna impresa è impossibile: si potrebbe addirittura resuscitare una lingua morta (come ad esempio è avvenuto con l’ebraico moderno). L’identità di un Paese è data non solo dal territorio abitato, ma soprattutto dalla sua cultura, che si esprime attraverso un linguaggio specifico. E’ sorprendente, da questo punto di vista, il fatto che la Costituzione italiana tuteli “le minoranze linguistiche” (art 6) e “il paesaggio e il patrimonio storico artistico” (art. 9), ma nulla dice sulla lingua italiana.

La maggior parte degli anglicismi inutili penetra attraverso i media, in particolare televisione e giornali, che producono nel pubblico un effetto persuasivo subliminale anche sul comportamento linguistico. Siamo ormai assuefatti a sentire notizie come “il premier rafforza la sua leadership”, “troppo smog: serve l’ecopass”, “i detective danno la caccia al killer”, “lo show di Sanremo sarà un flop”….. che ormai non ci facciamo più caso. Idem per la comunicazione commerciale: dare nomi inglesi ai prodotti venduti, o usare espressioni inglesi per pubblicizzarli, sembra conferire agli stessi un alone di novità e prestigio.
C’è poi il gergo aziendalista, diffuso in particolare nelle nuove professioni, che a tutti gli effetti costituisce il nuovo “burocratese”, il nuovo “latinorum”. Dietro espressioni ampollose come customer satisfaction,  teamleaderfeedbackcore businessmeeting ecc. spesso si cela il vuoto delle idee. Dei gerghi tecnici, quello più succube dell’inglese è indubbiamente l’informatica; non facendo alcuno sforzo per tradurre vocaboli come backupquerybrowserproxy ,tag ecc., i tecnici proteggono i propri “misteri” dalla comprensione dei profani. Altri settori particolarmente compromessi sono: musica (jam sessionboy bandhitsspecial guestdj-set…), motori (scootertest driveairbagsuvpit stop…) e benessere (beauty-farmfitness center , stepanti-agingrelax…).
poteri pubblici, anziché contrastare il fenomeno, lo promuovono (a volte con fini propagandistici), veicolando termini come ticket sanitario, ministero del welfareauthority per la privacyquestion timeelection day… Gli enti pubblici o privatizzati non sono da meno (pensiamo a poste-pay, treno eurostartest universitario, check-in all’aeroporto ecc.)
Il fatto ridicolo è che molte delle parole straniere che usiamo sono in realtà pseudo-anglicismi, ossia termini che non esistono nella lingua anglosassone, o che hanno un significato diverso, e di fronte a cui un inglese si sentirebbe in imbarazzo: flipper (in inglese si dice pinball), slip (si dice knickers), box (per lock-up garage), autogrill (per motorway service station), scotch (per sellotape), smoking (per dinner jacket) … I cosiddetti composti ibridi, in costante aumento (es. droga partybaby pensionato, industria leader ecc.), a volte danno origine a bizzarre espressioni maccheroniche come funeral serviceocchial house, fido wash.. Ciò a dimostrazione che, adottando certi prestiti, l’italiano non si sta internazionalizzando, ma diviene ancora più provinciale.

Il senso del presente appello non va frainteso come una forma di anti-americanismo e di xenofobia: non si tratta di una lotta tra italiano e inglese, ma anzi occorre conoscere meglio entrambi (e non un misto inesistente dei due). Gli italiani invece si distinguono per una certa ignoranza della lingua inglese, e sono pochi quelli che saprebbero tenere una conversazione (come dimostra il fatto che ancora tutti i film americani vengono doppiati).
La diversità linguistica dei popoli, come e più della cd. biodiversità, rappresenta una ricchezza, e va preservata contro ogni tendenza all’uniformità. Sono centinaia le lingue a rischio di estinzione nel mondo: se continuiamo su questa strada fra non molto dovremo includervi anche l’italiano!
Lo spirito di questo appello non è un invito alla censura e alla negazione del diritto di parola, semmai, al contrario, esprime un anelito alla libertà e creatività linguistica. Una volta liberati dall’uso fisso e condizionato dell’ita-nlese, ciascuno di noi può partecipare all’impresa di “inventare” l’italiano di oggi, trovando le parole adeguate per i  concetti via via introdotti dai mutamenti tecnologici e sociali.
Né un’iniziativa a favore dell’italiano va interpretata come in contrapposizione rispetto ai dialetti regionali: è evidente che, se non tuteliamo nemmeno l’idioma comune del nostro Paese, tanto meno potremmo salvaguardare le parlate locali. Anzi, i dialetti a volte possono fornire spunti per trovare neologismi adatti a tradurre le parole inglesi.

In conclusione, che cosa possiamo e dobbiamo fare? Individualmente, mettere in atto una resistenza linguistica, cercando il più possibile di evitare gli anglicismi superflui nel parlato e nello scritto; spesso questo richiede sforzo, perché si tratta di muoversi in controtendenza. L’equivalenza nell’italiano può essere trovata in vari modi: con un adattamento grafico (es. alcol per alcohol), con una traduzione con un vocabolo già esistente (es. mediatore per broker), con un calco-semantico, che sfrutta la somiglianza formale tra parole di idiomi diversi in modo che il significato di una influenzi quello dell’altra (es. aria condizionata per air conditioned), o infine con un neologismo (come il termine “regista” coniato da Bruno Migliorini).
E’ poi necessario un intervento pubblico. Da parecchi anni si parla di istituire un “Consiglio superiore della lingua italiana” con funzione di promozione del “buon” italiano, anche all’estero; nel 2001 e nel 2009 furono presentati apposti progetti di legge, che però non andarono in porto.
Qualora mai venisse istituito, è importante che tale organo non solo abbia poteri consultivi, come nel disegno di legge, ma le sue decisioni abbiano valore vincolante. In particolare occorre stabilire un esplicito divieto dell’uso di anglicismi impropri in certi ambiti, come: atti della pubblica amministrazione; pubblicità (come avviene ad es. in Francia, ma anche in Portogallo); film,  telefilm e spettacoli di largo consumo, compresi i titoli (che devono essere tradotti). Se non dovesse bastare, si potrebbe intervenire negli altri settori, senza limitare eccessivamente la libertà di espressione, non con un divieto ma con una “tassa sull’anglicismo”, ad es. titoli dei giornali e telegiornali, insegne dei negozi, nomi dei prodotti ecc.
Sarebbe comunque auspicabile inserire la tutela dell’italiano, quale idioma ufficiale, nella nostra Costituzione (come già prevedono la costituzione francese e spagnola).


Ps: sul sito Achyra si trova un vero e proprio “dizionario di resistenza linguistica”, compilato da studiosi ed esperti. E qui due contributi sul tema di Ceronetti e Camilleri

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